Il Pan e Vin e la Cultura Popolare

Il Pan e Vin e la Cultura Popolare

Nella campagna veneta che grosso modo si estende tra il corso del Piave e il mare, uno dei giorni più attesi è il 5 gennaio, vigilia dell'Epifania.

Nell'aria vibra un'eccitazione, un fervore. Anche i più piccoli sanno che questa è una festa speciale e volentieri si svegliano presto.

"Svelti in macchina, i nonni ci aspettano!"

E ci aspetta anche una giornata di duro lavoro.

Il tempo di scendere dall'auto che già si indossano tuta, stivali, guanti e berretto.

 

Il freddo è intenso, la mattina i campi sono ancora gelati e il sole proprio non riesce a riscaldare l'aria. Ma è meglio così: avesse piovuto farebbe meno freddo, ma si affonderebbe nel fango fino ai polpacci.

 

Mi piace la terra d'inverno: i solchi lasciati dalle ruote dei trattori sembrano aspettare il ritorno dei primi aironi e par di sentire il freddo patito dai pioppi spogli che fiancheggiano le strade di sassi.

 

Nell'aria che paralizza le narici si può sentire forte l'odore della terra. Odore di vita.

Già dal giorno prima è stata piantata la lunga pertica, in cima sta il fantoccio della vecia, vestito con vecchi cenci e con la faccia dipinta. Ora c'è da metter le fascine e la paglia.

Le balle sono pesanti, si suda nonostante il freddo.

Tutt'attorno le piante di mais rimaste a seccare sembrano aspettare la propria sorte. Sono rimaste lì per l'occasione, tranne poche servite a costruire un nido per le anatre. Colpi secchi di roncola le recidono, si formano i fasci. I visi bruciano per il freddo, sbuffi di fiato caldo formano nuvolette bianche.

La pira prende forma, ma bisogna ripulire per bene il terreno per contenere il fuoco.

Alle spalle il vecchio casale con il porticato in antico stile veneto sembra quasi che controlli il lavoro degli uomini. Fate attenzione che col fuoco non si scherza.

Urla di bambini e abbaiar di cane: oggi è permesso correre nel pollaio per spaventare le galline. Solo i gatti stanno prudentemente nascosti sotto la catasta di legna.

 

Dentro, le donne attorno al vecchio foghèr sfornano generosi tranci di pinsa veneta, il dolce di fine festività fatto con gli "avanzi" del pranzo di natale: farina da polenta, uva passa ammollata nella grappa, fichi secchi, lo strutto del compianto ma non rimpianto maiale.

Sui cerchi di ghisa della stufa, allo schioccare dei ciocchi di robinia, sta pipando il pentolone con l'anatra, la gallina e l'ultimo cappone: sta lì dalle sette di mattina e andrà piano piano fino al pomeriggio. Mani sapienti sgrassano il brodo, perché oggi è giorno talmente di festa che ci si può permettere di fare i siori.

Il pranzo è frugale, quasi malvisto.

 

Sbrighiamoci che il buio arriva presto. Ancora fascine, ancora paglia. Nessuno lo vuole ammettere, ma noi vogliamo avere il falò più alto del circondario, che domani tutti ne possano parlare con invidia.

In cucina i ragazzi più grandi sistemano i tavoli, trasportano sedie, apparecchiano.

Le tovaglie bianche, il servizio buono, il vino dalla cantina. Il profumo di lesso si mescola con quello caldo, avvolgente, del vin brulè.

Il sole scende, il freddo e il buio diventano i padroni della campagna, almeno per ora.

Nel campo la vecia è rimasta sola a godersi l'ultimo tramonto della sua breve esistenza. Lei lo sa che si sta sacrificando per il bene della gente.

I parenti, gli amici cari, quel vicino rimasto vedovo.

Tutti sono invitati, tutti sono arrivati.

Stasera, da queste parti, nessuno rimarrà solo perché comincia un nuovo anno nelle case e sui campi.

E c'è bisogno che le cose vadano bene.

Usciamo nel campo.

Il capofamiglia e il più piccolo, come vuole la tradizione, accendono la paglia.

In breve le fiamme avvolgono la pira e in un amen la vecia è consumata dal fuoco.

In coro, tutti cantano la filastrocca "Eviva el pan e vin!..."

C'è sollievo, perché il calore del fuoco scaccia il freddo.

Bisogna osservare dove il vento conduce le fàive, le scintille. Se vanno verso il mare allora tutto andrà a meraviglia: il grano, il maiale, l'uva...

Ma se vanno dalla parte opposta, verso le montagne, allora... allora meglio non pensarci.

Ognuno, in segreto, si ricorda di chi c'era l'anno precedente e ora non c'è più.

E magari, più che dal fuoco, cerca calore in quel boccone di pinsa e in quel goto de vin brulè.

"Che Dio ne dàe a sanità e pan e vin!"

Ci basta poco per essere contenti: un po' di salute, di pane e di vino, una luce, un po' di calore, la gente che ci sta cara.

Con la consapevolezza che l'impegno e la volontà non sono sufficienti.

C'è qualcosa che non dipende da noi. E che perciò ci sfugge.

La vecia brucia, questo è l'importante, e si porta via le robe brute de l'ano pasà.

Nasce una speranza, uno sguardo d'attesa sul domani.

Si torna dentro mentre bruciano anche le ultime malinconie.

Le lasciamo alla luna e agli alberi che tornano sempre a riempirsi di luce e di foglie.

Solo il cane è rimasto fuori a sorvegliare il punteggiare di falò nel circondario e in attesa di qualche osso succulento.

Nella grande cucina c'è chi si rimette subito al lavoro e chi si siede.

A un tavolo, tutto per loro, i bambini.

La grande tavolata, invece, è divisa in due: da un lato le donne, dall'altro gli uomini.

Tutti in ordine di età.

Non è una divisione per caste. E' piuttosto l'esempio più fulgido di uguaglianza sociale mai visto.

Tutti devono sentirsi partecipi, nessuno sia escluso, nessuno si annoi.

E accade proprio così: nessuno si annoia, tutti discorrono di argomenti che gli interessano.

 

Anche il menù è democratico.

Il meglio del meglio della campagna. Una cena da re. Ma anche per i veci, per gli sdentati, in modo che tutti possano gustarne.

E' un menù fisso, sempre uguale da generazioni. Nulla si aggiunge e nulla si toglie. Le rivisitazioni sono bandite!

 

La pastina nel brodo andato tutto il giorno che rapide cucchiaiate fanno sparire dalle fondine; la gallina, l'anatra e il cappone lessati; i muzeti (che sarebbero i cotechini) freschi di due settimane; il purè fatto con le patate colte in agosto da una terra fin troppo sabbiosa e conservate gelosamente al buio; il radicio che nelle trasmissioni stellate è chiamato tardivo di Treviso; il vino, la grappa, la pinsa, le noci, i bagigi, i mandarini...

 

Si sparecchia in fretta! Le donne e i bambini giocano a tombola. Chicchi di granturco ovunque.

Gli uomini giocano a scopone o a briscola.

In ballo vi è il prestigio. Buon senso vorrebbe che il padrone di casa vincesse sempre. Ma tra genero e suocero, si sa, la rivalità è accesa!

La scala quaranta è la cosa pìù moderna che si fa, tollerata perché tiene impegnati gli adolescenti.

 

E' tardi, manca poco a mezzanotte. La vecia, prima di andarsene ha lasciato per i bambini dei vecchi calzettoni pieni di mandarini e di caramelle. Finalmente! Aspettavano questo momento da tutto il giorno.

 

Gli ospiti se ne vanno non prima di aver dato una mano a rassettare.

 

In tutti, ma proprio tutti, c'è un unico sguardo: ci ritroveremo allo stesso modo anche l'anno prossimo.

E così l'anno dopo e quello dopo ancora...

Quando usciamo e alziamo gli occhi al cielo limpido punteggiato di stelle invernali, sappiamo bene che non potrà essere così per sempre.

Ma non importa: ci sono certe cose che rendono la vita bellissima!

 

Dedicato a Maria

 

 

"Che Dio ne dàe a sanità e pan e vin!"

 

Eviva el pan e vin

A pinsa soto el camin

I fasoi pa' i pori fioi

E 'e patate pa' e fèmenate

 

Eviva el pan e vin

'a vecia sul larin

'a magna i pomi coti

E 'a ne assa i rosegoti

 

Eviva el pan e vin

A massera su 'a panèra

El paron sul caregon

El putin sul so letin

 

Eviva el pan e vin

'a erbeta pa' 'a vedèeta

I caponi pa' i paroni

E i gai pa' i fituài

 

Eviva el pan e vin

Che Dio ne tègna sani

Par trovarse tanti ani

A casa dai G...ani