Il Fotografatore PoP va alle Olimpiadi: tra salti, corse e lanci spuntano i Minions

12.02.2018 20:32

Sono sempre stato un grande amante dello sport.

Il calcio era sicuramente un poderoso richiamo, ma l’atletica leggera ha esercitato su di me un fascino tutto suo fin da quand’ero bambino.  Erano i tempi di Pietro Mennea e delle sue vittorie leggendarie. E non ero l’unico  fanciulletto che sognava di volare leggero su una pista rossa per poi salire su un podio con alle spalle la bandiera a cinque cerchi.

Il motivo per cui i miei sogni di cantare a squarciagola l’inno di Mameli si dissolsero nel nulla fu dovuto in larga parte al fatto che nessun talent scout ebbe la fortuna di imbattersi nel mio talento di velocista; e in misura minore  al fatto che fin da allora mi piaceva praticare lo sport soprattutto dal divano di casa.

Ma suppergiù nella prima metà degli anni ’80 un evento epocale cambiò per sempre le vite di tutti noi: nei bar di tutto il Paese uscì Track & Field, un videogioco meraviglioso che riproduceva alcune delle più entusiasmanti gare olimpiche di atletica leggera.

Il protagonista era un robusto atleta che aveva in tutto e per tutto le sembianze di  Zbigniew Boniek: stessi capelli e stessi baffoni rossi (negli anni ’80 gli atleti fighi si facevano crescere i baffi invece che tatuarsi). Il suo avversario in pista era invece il sosia di Apollo Creed, il grande pugile prima nemico e poi amico di Rocky Balboa (“Adrianaaaaaaaaa” per capirci).

Ricordo ancora le uscite di nascosto dalla mamma per andare al bar (!) a sfidare i compagni a quel meraviglioso gioco. Il bello è che alla fine si era più sfiancati dei veri atleti perché bisognava smenare come dei pazzi su joystick e pulsanti.

Quando dopo qualche tempo i gestori cambiarono il videogioco, dovetti giocoforza appendere gli scarpini al chiodo e fu così che si concluse la mia carriera da atleta olimpico.

Almeno fino a qualche giorno fa.

E’ venerdì sera e ci si stiamo per coricare (si ha una certa età).

Mia moglie mi fa: “te lo ricordi, vero, che domani pomeriggio devi andare a fotografare la gara di atletica di nostra figlia M.?”

La guardo in silenzio senza nulla rispondere.

“Te lo ricordi si o no?”

“Vagamente –rispondo infine- ma potresti gentilmente ricordarmi cosa, dove, quando, come e perché?”

Lei sospira paziente. Prima attacca con la storia che non la ascolto mai quando mi parla e poi mi dà il colpo di grazia con la scusa che a una certa età ci si dimentica le cose.

Mi spiega, sempre pazientemente, che avevo dato la mia disponibilità a collaborare con la società sportiva per questo tipo di eventi. Dice che è una sciocchezzuola, ci sono alcuni ragazzini che devono percorrere al coperto qualche giro di pista. Robetta, per uno come me.

Mi alzo dal letto felice come un bambino il primo giorno di scuola dopo le vacanze e metto in carica un paio di batterie.

L’indomani, invece dell’auspicabile pisolino, carico in auto figlia e attrezzatura e partiamo alla volta degli impianti sportivi.

Nel tragitto cerco di fare una specie di briefing con la piccola per non arrivare del tutto impreparato.

“Quanti giri dovrete fare, cara?”

“Ma no papà, quali giri? –ha un tono che non promette nulla di buono-  È una gara di triathlon: velocità, lancio del peso e salto in alto!”

Ottimo, penso, ho scelto l’attrezzatura ideale per tutt’altro.

“E dimmi, cara, in quanti sarete?”

“Di sicuro non so, ma ci sono tante società. Forse cento, centocinquanta atleti”

Lei dice atleti ma io visualizzo preadolescenti problematici. Genitori tifosi. Guai.

Una volta arrivati, mi dirigo verso l’allenatore della squadra. Mi spiega l’ordine della gare (apprendo che il getto del peso è in realtà il lancio della palla medica, e più tardi avrò modo di capire perché si chiama così), mi spiega che ci sono le gare maschili e femminili, mi spiega che ci saranno almeno tre gare in contemporanea, mi spiega che l’evento durerà alcune ore.

“Ok, perfetto, in quanti siamo?” gli chiedo io.

“In che senso?” ribatte lui.

“Genitori che fanno foto, intendo”

“Ah noi, guardi, c’è solo lei”

Il passaggio alla terza persona non promette nulla di buono.
Però fa una cosa molto carina: mi dà la maglietta ufficiale della squadra così potrò muovermi indisturbato per il campo di gara.

Wow! Una volta indossata la maglietta sfolgorante di un giallo minion mi rendo amaramente conto di avere esattamente l’aspetto di una grossa e buffa patata pelata.

Mia figlia mi guarda. E ride.

I nostri (spirito di squadra in modalità “on”) atleti si scaldano. E’ l’occasione giusta per qualche scatto di prova.

Poi ha finalmente inizio la contesa. C’è un bel clima, lo riconosco. L’allenatore ha fatto un discorso sull’importanza di divertirsi. Di dare il meglio di sé ma di divertirsi. Bravo!

Gli atleti maschi sprintano nella prima prova. Da par mio immortalo abilmente il loro titanico sforzo e le smorfie di furore agonistico.

Più in là sta per partire la gara femminile di salto in alto. Sento chiamare al salto il nome di mia figlia. Mi volto giusto in tempo per vederla centrare in pieno l’asticella gialla.

Ben fatto, ragazza!

Finite le batterie di sprint maschile, posso finalmente fiondarmi sulla pedana del salto in alto. Profittando della mia divisa ufficiale da Minion, posso scegliere le posizioni migliori per riprendere le ragazze gialle della nostra squadra.

Uh, è di nuovo il turno della mia ragazza.

Questa volta sono pronto con la fotocamera in assetto da guerra. Riprendo tutta la sequenza: concentrazione, partenza, rincorsa e… BAM! Centro perfetto anche questa volta, l’asticella presa magistralmente va giù che è un piacere. La mia ragazza sarà una delle poche a fare due centri su due tentativi. Tutte le altre atlete dovranno proseguire la gara per più di un’ora prima di riuscire a buttarla giù per due volte consecutive.

Prima che fotografatore sono padre, ricordatelo. Orgoglioso.

Riprendo anche i salti delle altre atlete gialle poi mi precipito sul lancio della palla medica. Cerco di piazzarmi in posizione strategica, ma il posto migliore è già occupato da un accigliato genitore che sta riprendendo con lo smartphone  il suo figliolo che lancia. Lo sfioro con un gomito e quello mi guarda con odio sibilando “scusa, eh, c’ero prima io!”. Figuriamoci se un pischello col telefono può mettere paura a un fotografatore accreditato dalla società ospitante e per di più con la divisa da Minion.

 Il ragazzo è in pedana. Concentrazione, rincorsa e sforzo immane per lanciare la pesante pallotta. Mi pare un buon lancio. Ma il padre aggressivo urla verso il figlio “devi tirare fuori i maglioniiiii!!!”

Non capisco perché dica così. Mi pare che la temperatura sia gradevole. Il figliolo incassa lo sguardo di solidarietà di un compagno.

Preso dalla foga delle azioni quasi non mi accorgo che la palla medica lanciata da un energumeno (ma non erano dodicenni?) mi sfiora di tanto così. Il giudice addetto alla misurazione mi ammonisce: “Occhio che mirano al bersaglio grosso!”. Lo sapevo, il giallo non mi sfina.

Pochi secondi dopo, concentrato con l’occhio nel mirino, vengo centrato in pieno su una coscia dalla palla. E capisco perché si chiama medica: se ti centra, devi ricorrere al medico. Il giudice mi guarda come a dire “io ti avevo avvisato”.

Stringo i denti e proseguo nel mio reportage sportivo.

Altre gare: sprint femminile, salto maschile, lancio femminile.

Zaino in spalla e macchine in mano continuo nella mia implacabile missione: le gioie dei vincitori, lo sconforto degli sconfitti.

A proposito, vedo il genitore di prima seduto desolato a bordo pedana: il suo ragazzo è stato eliminato e siede dall’altra parte della pista ridendo coi suoi amici. In fondo, niente è perduto. Si merita anche lui una bella foto.

Cinque ore e 600 fotografie dopo, ansimante, con le ginocchia scricchiolanti e la schiena che mi apostrofa aspramente, incrocia mia figlia.

“Ci sono possibilità che tu venga premiata perché tra le prime dieci?” le chiedo.

Lei mi guarda un po’ preoccupata, mi prende sottobraccio e mi fa “Vieni papi, ti accompagno a casa”

 

E’ stato un bel pomeriggio di sport. I ragazzi si sono divertiti. Hanno imparato a gareggiare dando il meglio di se stessi senza abbattersi o esaltarsi.

Da parte mia, io ho respirato nuovamente lo spirito olimpico e mi sono rivisto, dodicenne, sfrecciare con la fantasia su una pista nei 200 metri piani.

Ma soprattutto, ho scroccato una bellissima maglietta gialla.